
La recensione di Fabio Donalisio sulla rivista "Blow Up" di Ottobre 2023
Per la sua seconda prova narrativa (la prima, del 2018, era un romanzo epistolare, roba d'altri virtuosi tempi), il poeta trevigiano Cellotto sceglie un'angolatura scomoda da cui osservare la vita: lo spazio (il non-luogo, o non-tempo) del fine vita ("per ora pare non avere un nome migliore") che funge anche da sottotitolo. C'è la vita, qualunque cosa sia o l'idea che uno decide di farsene, e c'è la sua appendice: un tempo per una volta definito, con la data di scadenza a definirlo e a privarlo di significato (se mai ne aveva prima). Così per un cinquantenne innominato, a cui una malattia terminale ha fornito la deadline (letteralmente). Emigrato in Canada, con una relazione anch'essa in scadenza, decide di tornare nel luogo natale come per chiudere un cerchio, e alleviare la solitudine del sofferente (la più ermetica e incomunicabile) con gli affetti familiari.
Obiettivo fallito, come da copione, ma la scoperta, il ritrovamento (l'invenzione, come da etimologia) sarà la scrittura. Ne nasce una sorta di diario, non tanto di eventi, che nel non-tempo della malattia rivelano la propria inconsistenza, quanto di pensieri (sì, è ancora possibile narrare di pensiero) e nude sensazioni, in cui i Personaggi con la p maiuscola di ogni storia, gli eroi (padri, madri, mogli, amanti etc.) sbiadiscono in favore di comprimari e comparse, così come la Vita (anche lei con la maiuscola, quella che vorremmo portatrice di senso) si rivela per quello che è: un'attesa (beckettiana) del nulla, costellata di qualche dettaglio su cui, per caso o per scelta, l'occhio sceglie di soffermarsi. Un'appendice, appunto, la cui fine — le rare volte in cui si è costretti a pensarla davvero — è un'appendice ulteriore. Con grande pacatezza (e con la sobrietà che contraddistingue il suo sguardo poetico) Cellotto prova a dare conto di tutto questo. In un romanzo che si vuole piccolo, con il cuore di piombo. Fabio Donalisio
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